Come si riconosce una relazione contraddistinta da dipendenza affettiva?
Non è facile, soprattutto se consideriamo che ogni rapporto d’amore è caratterizzato dal sentirsi legato a qualcuno.
Stare insieme significa fare progetti insieme, ma anche avere la possibilità di contare sul proprio partner, ossia che lui/lei possa essere sostegno alle nostre mancanze personali.
Entrambe sono basi su cui si può fondare la relazione, ma la dipendenza affettiva giunge laddove non c’è equilibrio tra le due finalità, ossia quando ci si relaziona per colmare, più che per progettare qualcosa.
Non è una dinamica consapevole, ovviamente, ma la dipendenza affettiva può manifestarsi come una vera e propria scoperta traumatica che può anche innescare violenza.
Ogni relazione è soggetta a cambiamenti e quelle equilibrate si adattano ai mutamenti del tempo.
La persona dipendente, invece, spesso persegue il sogno irrealizzabile di cristallizzare la relazione, quindi, quando dovrà confrontarsi con i cambiamenti inevitabili della vita, tenderà a rispondere con un irrigidimento su posizioni di controllo. Così proverà a riconquistare il comando che sente perduto.
Accade così che un legame sano, fatto di stabilità e sicurezza, si possa trasformare in una catena.
La tendenza a dipendere da qualcuno si muove da due punti di partenza: la mancanza di fiducia in se stessi e le eventuali ferite provocate dalle esperienze pregresse.
Ferite, causate dal rapporto malsano con genitori o figure di riferimento, per esempio, producono spesso identità fragili.
Chi ha un’identità fragile o ferita tende a utilizzare il rapporto di coppia per nascondere i propri limiti, nonché il senso di inadeguatezza.
A questo punto possiamo dire che la violenza si risulta come il tentativo, sempre vano, di cancellare la terribile scoperta dell’insicurezza, dell’imperfezione.
Dipendere da qualcuno, infatti, significa sentirsi perduti in mancanza dell’altro e avere dunque l’impressione di perdere, insieme quella persona, anche il senso della propria esistenza.
L’assenza del partner non ha più così una valenza neutra, ma diventa un’azione finalizzata a infliggere volontariamente dolore: questo meccanismo può far sentire le persone vittime e legittimarle dunque a colpire.
La persona dipendente somiglia, per certi aspetti, a un bambino molto piccolo. Quest’ultimo non ha ancora interiorizzato la costanza dell’oggetto d’amore, dunque non è capace di sopportare l’assenza dell’altro. Nell’adulto ovviamente gli esiti sono molto più pericolosi perché entrano nell’orbita di un sistema autocentrato in cui l’oggetto d’amore deve essere posseduto, preteso, controllato, perché in sua assenza ci si sente perduti.
E dunque qual è l’alternativa alla logica della violenza e del possesso?
Darsi l’occasione di conoscere la complessità di cui siamo fatti, per esempio, ricontattare e curare la propria ferita nascosta.
La psicoterapia può indirizzare a ragionare su se stessi, sul ruolo giocato nella coppia, sulle responsabilità di cui bisogna farsi carico.
Spesso qui emerge l’inclinazione dannosa a presumere la conoscenza dei pensieri del partner e, di conseguenza, la tendenza a interpretare comportamenti e scelte dell’altro.
Nello spazio terapeutico, questo atteggiamento può essere osservato e pian piano ripensato, sollecitando e supportando l’importanza di mettere al centro del discorso i propri vissuti.
La condizione qui descritta infatti non è una caratteristica individuale, ma riguarda la dinamica relazionale della coppia. Lo scopo della terapia, infatti, non è auspicare l’indipendenza come alternativa alla dipendenza, ma valorizzare la reciprocità.
Le cose non capitano solo dentro le persone, ma tra le persone Essere coinvolti in una relazione significa spesso cadere, ma anche sporcarsi, fraintendersi, chiedere magari senza desiderare davvero, oppure ricevere senza aver chiesto nulla: è questione di reciprocità, la chiave per migliorare il nostro modo di saper essere nel mondo.
Dott.ssa Elena Paiuzzi - Psicologa e psicoterapeuta a Alessandria
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Ultima modifica: 10/06/2016
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